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Maria Galbusera (1874-1917)

 

Nasce a Milano il 2 novembre 1874, dodicesima di sedici figli, da genitori molto pii ed agiati: dal padre, Carlo, eredita gran parte del suo temperamento, mentre dalla mamma, Teodora Dal Corso, intelligenza acuta e vivace e capacità artistiche. Inoltre, gli insegnamenti soprattutto materni l’accostano alle grandi verità della fede. Vive gli anni giovanili in un ambiente profondamente religioso che favorisce la maturazione spirituale.

Possiede una capacità intuitiva speciale tanto che, secondo la sorella Camilla, ancora bambina di pochi anni comprende già le lezioni teologali di monsignor Brera del duomo di Milano. Le piace leggere; studia senza fatica, ma è delicata di salute. Frequenta le scuole pubbliche e quella superiore Alessandro Manzoni, dove si impartisce l’educazione alle giovani degli ambienti più raffinati di Milano. Vi si reca accompagnata da una domestica. Impara così il francese come si usa a quel tempo nelle famiglie rispettabili; ma i Galbusera non amano la vita mondana e non vanno neppure a teatro. A scuola si esercita nell’apostolato verso le amiche.

Il 20 ottobre 1893 consegue la patente di maestra elementare di grado superiore con una valutazione che le permette di trovare subito lavoro, senza essere a carico della famiglia che soffre di un dissesto finanziario. Infatti, come maestra elementare, insegna per più di dieci anni in varie scuole: prima a Broglio, vicino a Lecco, in Brianza, poi all’istituto Grimm. In seguito ritorna, assunta in qualità di assistente alla scuola superiore Alessandro Manzoni di Milano, dove è apprezzata.

La sua carica umana le dà modo di stringere bei rapporti di amicizia, preziosi per le alunne: molte lettere scritte in seguito sono dirette a signorine conosciute in quell’ambiente e poi seguite nel corso della vita. Le riesce, invece, difficile collaborare con la direttrice, terribilmente rigida. Per lo spiccato senso dell’esattezza, quasi teutonico, ereditato dal padre, è molto brava a tenere la disciplina nelle classi, cosa che non riesce ad alcuni professori: basta allora la sua presenza e qualche suo cenno ad indirizzare nel giusto binario la vivacità delle alunne che sorveglia anche durante la ricreazione.

Si presta ad aiutare le giovani; come educatrice sente tutta la passione di donarsi a quelle che le vengono affidate: «Oh, le mie cinquanta scolarine, belle, buone, ordinate! Erano tutti sogni che mi apparivano per conforto davanti alle immani cataste di quaderni e libri di fronte ai freddi muri della scuola; chissà che la coscienza di aver compiuto il mio dovere non mi dia almeno qualche rosa da cogliere tra le spine!».

Interessanti risultano i seguenti pensieri di carattere educativo, scritti prima di entrare nell’Opera, e che denotano la grande sensibilità maturata grazie anche all’esperienza di insegnante. «Di tante scienze didattiche e pedagogiche per l’educazione dei bimbi, forse il migliore trattato deve essere questo: d’un amore vero, tolto dal cuore di Cristo e riversato, nella sua pienezza, nel cuore di questi innocenti». «Ho la certezza che Dio supplisce a tutte le mie lentezze e debolezze e che veglia per me. Ciò mi conforta». «Giorno per giorno sono tanto lieta di ciò che il buon Dio dispone. E i miei sacrifici son così poca cosa che bisogna non mi lasci sfuggire almeno questi che l’Amore mio mi mette lungo la via». «I bambini hanno fatto tutti un buon miglioramento morale, intellettuale, fisico. Li guardo, li amo e penso alle parole di Giovanni Battista: “Oportet me minui, Illum autem crescere”: È necessario ch’io mi rimpicciolisca, ed essi crescano. Crescano, come crescono i virgulti intorno ad una vecchia pianta, che resterà senza sole sotto la loro crescita, ma felice di dare tutto, di dare sempre, di dare fino all’ultimo».

Di fronte a momenti di sconforto incoraggia qualche amica: «Fa di tutto per aprirti questa via. Credi a me: questa vale una intera vita; mai, mai come ora ho inteso la divina missione dell’educare».

Al termine del primo decennio di insegnamento, però, Maria comincia a sentire il richiamo verso una totale dedizione a Dio nella vita consacrata. Ne parla alle sue sorelle. A Ida, suora al Sacro Monte di Varese col nome di suor Angela, il 15 dicembre 1902 scrive: «Ida, quando il Signore fa sentire così e la sua voce e la sua chiamata, che ci resta se non rispondere piangendo di gioia? Intanto bisogna pazientare e pregare... perché le sue vie non sono le nostre vie; ed egli sa quando e come si prepara l’avvenire!... Suor Teresa [di Gesù Bambino] prega per noi tre, è certo, e ha fatto tanto presso Gesù per noi! Poiché Gesù ha risposto: sì, sì; saranno anche quelle tutte mie!». Ed all’altra sorella, suor Elisabetta, Figlia della Carità e Superiora di una Casa a Massa Carrara, il 7 agosto 1903 confida: «è un pezzo che ormai vo rimandando di giorno in giorno questa notizia che pure ti colmerà di gioia; ma quante, quante volte, in mezzo a un abbaglio di luce e di felicità, mi assale improvviso un dubbio, una tristezza, una tenebra fitta e tutto quel misterioso dolore che sconvolge l’anima e la mette alla prova, dopo la sublime dolcezza della divina chiamata... Eppure, Elisa, Egli mi chiama fra voi, proprio fra le Figlie della Carità; e fu dono del suo Cuore e il giorno della sua festa questa chiamata [...] penso che ho perduto già tanta parte della vita, forse gli anni più belli: chissà se mi accetteranno; chissà se saprò rispondere, chissà se avrò le doti per essere almeno all’infimo posto fra voi!».

Nel 1903 si reca a Verona a trovare i fratelli Alessandro ed Edoardo, attivi nel movimento cattolico locale e, sull’esempio del padre, impegnati a realizzare principi etici e cristiani di solidarietà e giustizia. A 29 anni sembra ormai decisa ad entrare tra le Figlie della Carità, quando per la malattia grave di una cognata, si sente ispirata ad aiutare suo fratello Edoardo nell’educazione dei suoi quattro figli. Successivamente, rimasto vedovo Edoardo, prende il posto della cognata, facendo così da mamma per i nipoti e vedendo in questi eventi la volontà di Dio sulla sua vita.

Questo è uno dei motivi che la spinge a scegliere una strada diversa dalla vita religiosa e che la porta a stabilirsi a Verona. La decisione non le è imposta da nessuno, anzi suo fratello stesso cerca di dissuaderla: «Senti, Maria, se stai qui per amor di Dio e ti sacrifichi per Dio, sta bene: ma non farlo né per me né per i figli». Maria risponde: «Io scelgo il peggio».

A Verona tutta la famiglia ha come confessore padre Natale dei carmelitani scalzi, che guida anche Maria ad impegnarsi nelle opere di carità. Durante gli anni a seguire, infatti, Maria trova il tempo anche per visitare malati all’ospedale, carcerate e le “Pentite”, tenendo in questi due ultimi luoghi, conferenze alle ospiti.

L’Istituto delle Pentite era stato fondato nel 1807 da due nobili veronesi, le contesse Marianna Gherardi Sagramoso e Isotta Dal Pozzo Giuliari, nel complesso del vecchio monastero di San Silvestro, dove avevano istituito un collegio articolato in due sezioni: quella delle "Pentite" e quella delle "Pericolanti".

Dalla testimonianza e dalle lettere inviate da Maria Galbusera a don Emilio Fabbro, all’epoca Vicario cooperatore a San Lorenzo con don Scapini, che certamente sosteneva le attività promosse a favore delle “Pentite”, emerge una donna con un carattere deciso, aperto, franco e con una solida spiritualità come risulta dalla seguente lettera di Maria a don Emilio: “Bisogna ch’io le chieda scusa del mio modo d’agire poco cortese d’ieri sera. Mi sento in dovere di farlo e insieme bisogna ch’io le confessi che ogni volta che il Signore si usa di me, io mi sento spinta irresistibilmente a tenere una via, o a decidere senza che del mio lume e della mia volontà c’entri nulla. Per questo sono a volte un po’ spinta e un po’ ardita. Mi perdoni dunque, rev. Don Emilio; e mi voglia sempre considerare come uno strumento nelle mani del Signore. Né io posso pensarmi diversamente né pure concepire l’idea di fare qualcosa da me sola. Non si tratta d’umiltà, ma d’una verità così limpida nell’anima mia che mi è di coraggio e di forza. … Mi tenga unita nelle sue offerte all’altare e dica al Signore che mi immoli tutta. Ch’io ne sia degna, no; ma l’amore copre la moltitudine dei peccati”.

È di questi anni anche l’amicizia sorta tra Maria e la proprietaria di una Casa di prostituzione della città, che sembra poi essersi convertita. 

Non tralascia la sua formazione: gli autori spirituali che preferisce sono Santa Teresa di Gesù e San Giovanni della Croce; e, come il papà, ha una devozione particolare per il Santo Volto. Spesso si addormenta sui libri dopo aver preso qualche appunto. Inoltre, molte volte viene vista piangere nella chiesa agli Scalzi e tuttavia quando esce è allegra e disinvolta. Ama insegnare la dottrina cristiana ai bambini.

Trascorrono dieci anni fino a quando il fratello Edoardo manifesta la chiara volontà di essere lasciato solo e libero nell’educazione dei propri figli. Maria soffre molto e anche il suo fisico ne risente. Su consiglio di padre Natale, per ristabilirsi in salute, decide di ritirarsi per qualche tempo presso il fratello parroco, don Leone, a Montorfano nel comasco, rimanendovi dal 14 giugno 1913 a luglio inoltrato.

Nella lettera inviata alla amica Ballarotto Adele il 19 giugno (1913) descrive la sua esperienza e accenna anche alla sua salute che si sta ristabilendo: «Qui si sta bene; è un paesino che non saprei ancora dirti grande o piccolo, bello o brutto, so che qui, all’ombra del campanile c’è la casa dove sono io; che tra la casa e la chiesa non v’è che una stanza da traversare; ch’io sono sempre attorno a Lui come una farfallina attorno alla fiamma; io nulla, Lui tutto, ma spesso spesso insieme; tranquilla nella sua volontà, aspettando fidente ch’Ei mi dica di tornare tra voi. La tosse se ne va; né, sempre inteso nel Signore, fo conto di fermarmi più dello stretto necessario, quantunque qui mi trovi così e in piena libertà come a casa mia. […] Ti raccomando i miei figlioli, ma già, non c’è bisogno. Aspetto da te notizie precise, ora che a casa ci sei stata due giorni. […] tua Maria».

In un’altra lettera successiva, il 27 giugno, scrive ancora ad Adele: «Adesso sto proprio benino e comincio a fare come Balbotin: ho gli occhi lunghi fino a Verona! […] del resto qui sono molto tranquilla. […] Qui non mi par più d’essere la zia, e sto bene. Avevo proprio bisogno di metterlo giù un po’ quel fardello che le mie povere spalle e la mia anima debole e poco atta a compatire e a patire, non sapevano più portare senza una fatica dolorosa. Quando tornerò, cercherò soprattutto di diventar io più buona e tutto mi peserà meno e tutti mi sembreranno più buoni: la condotta degli altri è l’eco della nostra! Intanto qui cerco di ossigenarmi più che posso con l’aria forte e pura del Tabernacolo. Ci vado più spesso che posso – ma non è molto! Ci vado a riposarmi, ci vado … perfino a dormire».

Nella pace e nella tranquillità, nelle lunghe ore passate davanti al Tabernacolo, scrive la seguente preghiera: «Dinanzi a te, volto adorabile del mio Diletto, oggi con tutte le forze che mi restano in quest’ora, una delle più tristi e dolorose, rinnovo la protesta, la sigillo con le lacrime che sono il sangue dell’anima, di non volere altro mai che la tua adorata volontà, ch’io non ho più neppure un filo d’energia né per volere, né per fare, né per amare, meno ancora per soffrire. Mai come ora, mai come in questi giorni, vedo venire meno tutto d’intorno, perché se qualcosa conta, conta per rinunciarvi, conta per lasciare un solco di dolore nell’anima. Tutto ciò è adorabilmente santo e perfetto e senza niente capire mi abbandono ciecamente a te. Il tuo cuore batte nel mio cuore e qualche volta mi pare sì che siano all’unisono! È una dolcezza infinita che presto svanisce per colpa mia. Pure io anelo senza posa al tuo volere. Sotto le macerie della mia povera vita, io levo il capo e tendo le mani come il morente che cerca l’aria e la luce. Tutti i giorni ricado e tutti i giorni protesto, prometto, ricomincio... e Tu, dolce amore, pazienti, pazienti sempre. Oh! Ma levati su, levati su! E perché non ti vendichi di queste ribellioni, di queste mille debolezze? Perché sei buono! Dimmi, che cosa vuoi da me? Se Tu mi porgi aiuto, lo farò. Vuoi Tu ch’io mi distenda in silenzio sull’altare del sacrificio e più non mi muova, né parli, né sospiri? Come i morti? Ecco, ecco lascia ch’io ripeta e mille e mille volte coi tuoi sacerdoti: ecco la mia carne, ecco il santo legno. Ecco l’anima mia, il mio cuore, il mio spirito, la mia intelligenza, la mia volontà, tutto ciò che mi hai dato e che sono... ecco, presto, consuma. Nel cuore ci hai messo tante corde vibranti: spezzale tutte a una a una; nell’anima ci hai messo tanti profumi... consumali e disperdili; nello spirito ci sta nascosta, nelle profondità del carcere e dell’esilio, una luce misteriosa, un battito regolare che loda. Lo spirito che geme... Vuoi?... Volete abbandonarmi o divine persone? O Padre, a cui tendo le braccia da tanto tempo per i figli miei, o Figlio, in cui vivo e di cui mi nutro, o Spirito che sei la mia preghiera perenne, la mia parola gemente, l’Amore che mi anima... spezzate me, povero essere che tremi sotto l’orrore, l’agonia di un abbandono di vita, di uno sfacelo completo nello spirito e nella carne! Io vorrò tutto quello che Gesù vorrà e come lo vorrà. Prometto di cominciare in questo momento un’adorazione silente che non cessi mai più per tutta l’eternità. Mi unisco a tutti i santi sacrifici e offro senza posa nel cuore adorabile di Gesù tutti i sacerdoti della terra in ciascun atto di amore. Mi offro... vittima! Non dovrei osarlo, ma mi inabisso nell’anima agonizzante di Gesù nel Getzemani e sulla croce. Mio Dio! Mio Dio! Da quanto tempo grido in silenzio verso di Te! Non respingermi! Lo so: quando avrò consumato tutto, “Sono sempre servo inutile”. Per questo non respingermi. Fa feconda la sterile, apri le braccia ai tuoi figli, i tuoi eletti!».

Ristabilita in salute rientra a Verona e i contrasti in famiglia continuano. Deve accettare la decisione amara che ha preso suo fratello, ma la situazione le fa intravvedere anche una possibilità mai pensata prima. Maria manifesta al confessore Padre Natale questo suo desiderio nella lettera del 29 settembre 1913: “D’andare a casa mia mi sento poco, caso mai don Calabria non mi prenderebbe con le Sue figliole? Tanto per mia quiete”. E in una lettera successiva riconosce: “Bisogna però che le confessi francamente che mi sgomenta il pensiero d’una nuova vita in comunità – impreparata affatto”. E aggiunge: “Mi accetteranno così? È una miseria sotto tutti i rapporti che riceverà D. Calabria proprio come uno dei suoi abbandonati. Vorrei dirle che mi dispiace di essere in queste condizioni, ma non è vero, sono povera e tanto basta”. La sua situazione, sempre più sofferta, costringe Maria ad intraprendere il nuovo cammino anche se le costa lasciare e così deve ammettere: “Poi, farò tutto quello che Gesù vorrà… Tutto ciò che avviene è così dolorosamente strano che non può venire che dalla Mano di Dio”. Il 4 ottobre 1913 lascia i nipoti in villeggiatura a Peschiera e ritorna a Verona ospite della fedele amica Adele Ballarotto.

Nei giorni successivi di maggior sconforto, il 7 ottobre 1913 apre il suo cuore alla sorella Ida, rivelandole l’amarezza che sente, ma anche la rassegnazione di fronte a una scelta che legge come volontà di Dio: «Ida mia, senza un perché, senza una ragione, non mi vogliono più in casa e sono fuori. Dio lo vuole e io lo voglio. La mamma e i miei ragazzi ripetono con me “Dio lo vuole e sia”! è inutile ripescare, ormai è quasi tutto consumato di questo incredibile e angoscioso avvenimento. È – deve essere –Dio [che] l’ha segnato e mi trae con sé in solitudine. Un povero istituto mi accoglierà. Non lo conosco per dirti che cosa sia, ma ti scriverò in seguito; sta tranquilla: v’è un Tabernacolo, non cerco di più. Sono in pace, in pace con le mie mani nelle Sue mani, a guardare il turbine che mi ha portato via le amarezze e i dolori e il peso enorme che mi opprimeva da tanto tempo, da tanti anni. Con le mie mani nelle Sue mani, tranquilla, senza affanno perché so che è Lui che ha elaborato, e preparato a suo tempo, serbato e dato nell’ora sua, il gran dono del Calice. Egli è santo, adoriamo».

Nello stesso giorno scrive anche all’altra sua sorella, suor Elisabetta una lunga lettera dove le spiega la sua situazione, pronta ad accogliere un segno della bontà divina: «Aspetto di ora in ora che cosa devo fare nella via del Signore e forse sarò accolta fra le miserie sante di un santo asilo che ancora non conosco». Ma la lettera, inspiegabilmente, arriva a suor Elisabetta un mese più tardi. La sorella le risponde subito, invitandola ad andare da lei che le apre con tanto amore il cuore e la casa, e nella lettera aggiunge: “finché la volontà del Signore si sarebbe manifestata per l’avvenire”. Nella busta sor. Elisabetta acclude anche 50 lire per le spese di viaggio che rimangono inutilizzate, perché Maria, quando giunge la lettera, è già nella Casa di don Calabria dove per lei, come confida, è iniziata una “Vita nuova! Per ricercare da capo e con maggior alacrità la Volontà adorata del mio Signore! Seppellisco nell’abisso della sua misericordia tutto il passato fino a quest’ultima ora per risorgere ad una nuova vita di sacrificio e d’abbandono”.

Padre Natale si fa intermediario con don Calabria, essendo anche il suo confessore, presentando la richiesta di Maria che a sua volta gli invia le seguenti righe: «Metto e abbandono tutta me stessa nel segreto della volontà di Dio, e dico a Lei e dico al padre Natale: facciano loro ciò che Dio ispira per la mia salvezza. Io non conosco affatto la sua Casa; i pochi particolari che mi accenna fanno fremere la carne che non si piega mai, ma fanno esultare lo spirito di una mistica gioia. Il mio direttore lo sa: sono un povero morto che non apre più bocca neppure per chiedere l’agognato perdono di tante mancanze; neppure per dire a Gesù quanto lo amo...».

Così, all’età di 39 anni Maria Galbusera entra nella “Piccolissima Casa di Nazareth” il 9 ottobre 1913. Al suo arrivo si presenta al Padre che vuole subito metterla alla prova, chiedendole d’andare a san Giovanni in Valle a comperare cinque centesimi di legna. E lei va e con semplicità e naturalezza, se ne torna portando un fascetto di legna sotto il braccio.

Con parole cariche di affetto rassicura la mamma sulla sua scelta, così: «Benediciamo ancora una volta l’adorabile volontà di Dio! Benediciamola perché così santa che sbalordisce il pensarvi. Ah! Io ora non desidero più nulla: guardo indietro a ciò che è passato senza tristezza e senza rimpianto; guardo innanzi senza preoccupazioni né disegni, tranquilla in una gran pace: sono nelle mani di Dio! Mamma cara, quanto le terrà conto il Signore nella sua misericordia di questo dono che ancora Gli ha fatto della sua Maria! Sì, sì, mi offra ogni giorno, mi offra ancora come S. Anna in tarda età offriva al tempio la sua dolce bambina, Povera Mamma! Gesù è stato tanto buono per servirsi proprio di lei, del suo consenso, della sua sollecita approvazione per chiamarmi qui dove mi voleva: e mi è caro, tanto caro e confortante il pensarlo. Compia ora l’opera santa: persuada tutti che qui m’ha condotta il Signore, che qui devo stare perché Lui lo vuole, e lei sa che io ho sempre trovato la forza più forte in questa volontà divina, e ora più perfetta. Le dico questo, perché Ida mi scrive proponendomi quasi lassù un posto di maestra: perché potrebbero venire altre proposte, poiché ancora bene non sanno la risoluzione ferma che ha preso il Signore per me. E ora mi lasci esultare nella Casa del Signore. È un gaudio strano ancora, che ancora non conosco bene, non intendo bene: ma lo sento, mi sono ciecamente buttata nelle mani del Signore».

Dopo alcuni giorni dalla sua entrata nell’Opera, scrive all’amica Mercedes: «Ah, sorella! Io sono tanto contenta d’aver fatto quel che ho fatto, ma soprattutto lo sono, perché si è adempiuta la sua volontà, anzi posso dirti che lo sono unicamente per questo... Dio tiene l’anima mia nelle sue mani e cento volte al giorno la volge e la rivolge al sole e all’ombra come gli piace... Ho ritrovato una famiglia e delle Sorelle che mi sanno compatire, fino a restarne confusa. Io temo sempre della troppa bontà a mio riguardo...».

Il 31 marzo 1914 indirizza alla mamma queste righe: «Del resto stia sicura che mai come ora sono stata bene sotto ogni rapporto. Non dico in confronto delle burrasche passate: sarebbe poco, troppo poco; ma in confronto di tutto quanto di sereno si può desiderare quaggiù. Benedica con me il Signore perché il dono di avermi chiamata qui è grande, Si vedrà in avvenire quanto grande; io ne intuisco lo splendore, senza riuscire a dirne di quest’Opera benedetta, qualcosa di degno.».

Nonostante viva giorni di prova, di dolori allo stomaco ed insonnie prolungate che l’affliggono continuamente, Maria Galbusera non perde mai la serenità giungendo perfino a scherzare sui suoi stessi mali.

Di carattere aperto, franco, gioviale, deciso, è intelligente e colta, di cuore sensibilissimo. Intuendo la sua profondità spirituale e le grandi doti umane, e vedendo «un’anima virile di apostolo, colta e generosa», don Calabria la costituisce Superiora della comunità delle Sorelle nella piccola Casa di Nazareth. Stabilisce, infatti: «nei dubbi, o per qualche indirizzo, per ora si ricorra alla Sorella Galbusera, alla quale do il merito della santa ubbidienza...». Inoltre, le dà l’incarico di dettare alcune norme di vita per le Sorelle, fissandone così lo spirito e l’indirizzo.

L’umiltà autentica la porta a dire: «Dicono che io sono la Superiora. Io sorrido amaramente. È come un’ironia: non c’è nulla in me che risponda a questa divina missione, nulla». Le Sorelle testimoniano come vive il servizio con questi ricordi: «Questa buona Superiora andava alla cucina di San Zeno per prestare il suo aiuto, e ricordo che fra noi, era spesso con la scopa in mano... e si dedicava ai servizi più umili... Dormiva poco alla notte, e quel po’ di riposo che prendeva, so che era su di una seggiola, mangiava poco e io non l’ho mai veduta cenare a tavola con le Sorelle». «Le Sorelle che vivevano insieme a lei la trovavano serena e sorridente, piena di carità e di comprensione, profondamente umile non solo nei confronti dei suoi Superiori, ma anche nei confronti dei sudditi».

Non vuole una santità di chiacchiere mistiche, ma suore forti come Santa Teresa.

Insegna catechismo ai bambini della Casa San Benedetto incantandoli e trascorre anche gran parte del giorno nella cucina di San Zeno in Monte.

Non dà importanza ad una lieve infezione sul labbro superiore, contratta mangiando carne alterata offerta alla Casa da un reparto di soldati trasferitisi improvvisamente da Verona. Ben presto si manifesta violenta l’erisipela: a nulla valgono le cure. Muore presso l’ospedale di Verona, la domenica delle Palme, l’1 aprile 1917. Le Sorelle l’avvolgono in candidi lini, le pongono in capo una corona di rose e fra le mani un ramoscello d’ulivo.

Don Calabria scrive: «1 aprile 1917. [...] Ieri è morta in poco tempo la Sorella Maria Galbusera. Gesù offro, con l’aiuto della vostra grazia, tutto in penitenza dei miei peccati, per la vostra gloria, per le anime. Gesù aiutatemi».

Le amiche di Sor. Maria con le quale negli anni aveva instaurato una intensa corrispondenza, alla notizia della sua morte manifestano tutta la loro sofferenza molto pervasa di fede. Una di loro, Antonietta, scrive da Napoli a don Calabria: «Credo che gli angeli abbiano fatto festa in cielo, perché più a gioia che a dolore assomiglia quel che provo nell’anima». Alla sua lettera risponde sorella Maria Fannio su incarico del Padre: «La nostra buona Sorella Maria dunque ci ha lasciate per volare in seno a Dio. La sua carriera era finita, la sua corona compiuta e la sua missione quaggiù terminata e così Gesù venne a levarla dall’esilio per portarla nella patria. Noi non ci aspettavamo certamente che così presto ci avesse a lasciare, pensavamo di avere a godere a lungo del dono che il Signore ci aveva fatto, ma non fu. La trovò matura per il Cielo e ve la chiamò. Però la sua missione fra noi non è finita, ci ha lasciato un così largo retaggio di consigli, ammaestramenti e soprattutto di esempi per cui vive fra noi e di più ci ha promesso di vegliare su noi con cura materna quando fosse nel gaudio del Signore! E come sentiamo che mantiene la sua promessa! Regna in noi una pace, quasi una letizia, che ci fa credere come essa pur non lasciando il seno di Dio, che ormai la fa beata, è in mezzo alle sue figlie spirituali che sono tutte impegno per approfittare degli insegnamenti da lei ricevuti. Il male che la trasse alla tomba fu una risipola flemmonosa che incominciò a dar segno il lunedì e dopo la mezzanotte del sabato la cara e venerata malata spirava. Durante la malattia soffrì assai fisicamente e moralmente e così fini la sua vita tutta sacrificio, immolazione. Oh! Come lo Sposo Divino che ardentemente amò, per cui non conosceva sacrificio, la cui volontà era il pane delizioso e avidamente desiderato come ora la compensa largamente e la fa beata! Godiamo del suo gaudio ringraziamo Iddio della gloria he le ha riservata. […] La nostra buona Sorella ci aiuti dall’alto affinché lungi dall’ostacolare i misericordiosi disegni di Dio, ne affrettiamo il compimento». Antonietta, successivamente, mettendo a disposizione di don Calabria tutte le lettere a lei pervenute, aggiunge: «Quante anime ci attendono in Cielo e ci spingono a viver bene!».

Subito dopo la sua morte, su richiesta di padre Natale, don Giovanni fa raccogliere alcuni scritti tratti dalle Regole di vita di Maria Galbusera pubblicati in un piccolo fascicoletto curato da don Battisti con il titolo Siate perfetti già nel 1918.

 

Il 2 febbraio 1928, quando viene riesumata la sua salma, don Calabria appunta nel suo diario: «Oggi pure vi fu il trasporto delle ossa della Sorella Galbusera, morta il 1º aprile 1917, in un “calto”, per beneficenza di pia signora. O Signore se vi piace, glorificate la vostra serva». Dal cimitero di Verona è traslata l’11 novembre 1975, per essere definitivamente posta in una tomba nella cappella della Casa di Santa Toscana, il 26 novembre successivo.

 

 

Testamento spirituale

 

«Il nostro tempo è ombra che passa e finiti che siamo, non si torna da capo: si mette il sigillo e nessuno torna più indietro.

 

Io, Maria Galbusera, alla presenza di Dio Onnipotente, ai piedi di Gesù crocifisso, intendo oggi di dare le mie ultime disposizioni per ciò che riguarda la mia spoglia.

Se una povera croce di legno dovesse stendere la sua ombra pietosa sulla breve terra che copre, “esulterebbe essa nella sua cuna e trasalirebbe di gioia”. Ma, già nel secolo, stretta dal santo voto di povertà a Colui che ne è il divino modello, rinuncio a tutto; vivo povera e poverissimamente voglio essere sepolta, senza fiori né discorsi, con la carrozza dei poveri, nella fossa comune, nella più povera bara.

Morta, ne venga dato annuncio a uno dei membri della famiglia che ho sempre tanto teneramente amato e dalla quale ho ricevuto un largo ricambio d’affetto; ma nessuno pianga sulla mia bara, se non per essermi riposata dal portare la croce, che fu la sola e vera gioia e la forza della mia vita sempre in traccia della divina volontà.

Ai miei quattro figli adottivi e al padre loro, la più cara e materna benedizione: in seno a loro ho ritrovato la perla preziosa e il sentiero del cielo: saranno lassù la mia corona.

Al confessore l’espressione di una riconoscenza filiale inesauribile, che ha sue profonde radici nel cuore dello Sposo al quale mi ha consacrata e per il quale mi ha custodita con cura gelosa e presso il quale l’attendo nel gaudio eterno.

Alla Mercedes, che non m’avesse ancora preceduta incontro allo Sposo, lascio l’infinito desiderio, la sete infinita di raggiungere il divino Maestro, e la più grande tenerezza che anima d’amica abbia mai avuto per l’amica con la quale è vissuta in intima unione di spirito e in continua comune immolazione sull’altare dell’amore e dell’attesa paziente.

Alle Sorelle in religione, nuova famiglia infinitamente cara, dove lo Sposo mi ha messa di sua espressa volontà, per trarmi al sicuro dalla tempesta della mia povera vita, alle care, dolci Sorelle una sola parola, un solo ricordo: lasciatelo fare! E fate sempre quello che Gli piace. Il resto non conta nulla. Dal cielo continuerò a vigilare con amore materno, perché sono le pecorelle predilette del suo gregge e per rendere loro in Dio il più largo ricambio della carità paziente oltre misura usata fin dal primo momento che le conobbi.

Al Reverendissimo Superiore, l’anima da immergere nel calice del sacrificio per presentarla a Dio con il sigillo tutto proprio del popolo eletto di quest’Opera.

E ora, o Signore, non entrare in giudizio con il tuo servo! Ecco l’anima mia, eccola nelle mie mani: io la innalzo verso di Te: usami misericordia. Dirò con Giobbe: Questo tribunale è così tremendo, che quando pure mi soccorresse qualche legittima difesa, io tacerei e mi limiterei a supplicare il mio giudice.

Tuttavia, alla fine della vita, dice San Giovanni della Croce, saremo giudicati secondo l’amore. Ch’io possa dire in quest’ultima ora: Mio Dio, io ti ho lungamente, pazientemente amato!

Attenda pure la mia spoglia, nella quale stanno seminati i germi della risurrezione, attenda nel silenzio della bara l’ora dell’eterno risveglio.

Ma l’anima! Sta scritto nell’Apocalisse: “Lo Spirito ordina subito che (i morti) si riposino dalle loro fatiche”.

O mio Dio, giudicami dunque secondo l’amore e aprimi le braccia ch’io mi riposi, o eterno riposo dei santi! Che in questo amplesso, atteso il giorno e la notte, dall’alba al tramonto e all’alba ancora, in ogni ora, in ogni minuto, a costo di tutte le immolazioni senza riserva né alcuna né mai, per vie deserte tanto nel buio come negli splendori della luce, in questo amplesso si continuino finalmente le nozze eterne! Sia Lodato Gesù Cristo.

Dalla Piccola Casa di Nazaret il giorno di San Giuseppe 19 marzo 1914».

 

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Maria Galbusera

1917  -  Centenario della sua morte  -  2017

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